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“Non è solo nella tua testa”: il peso della mancata validazione nelle malattie invisibili croniche Dott.ssa Monica Tratzi

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    Amici Invisibili
  • 26 lug
  • Tempo di lettura: 7 min
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Dott.ssa Tratzi, ci può raccontare chi è e cosa la rende unica come psicologa e psicoterapeuta?


Sono Monica Tratzi, psicologa e psicoterapeuta iscritta all’Ordine degli Psicologi della Lombardia dal 2009. Dal 2018 lavoro esclusivamente online con persone adulte.

La mia specializzazione è la Psicoterapia Funzionale Corporea, un approccio che parte dal presupposto che mente e corpo non possono essere separati.

Questa psicoterapia considera la persona come un sistema integrato, in cui pensieri, emozioni e sensazioni corporee si influenzano a vicenda. Attraverso questo metodo, supporto chi soffre di ansia, stress, depressione e malattie croniche a ritrovare un equilibrio profondo che coinvolge corpo e mente insieme.


Quello che mi distingue è proprio questo: non lavoro solo con la mente, ma con la persona nella sua interezza, accompagnandola verso un cambiamento profondo e duraturo.

Questo approccio integrato è il cuore della mia pratica e la ragione per cui molte persone mi scelgono non solo come professionista, ma anche come compagna di percorso.


Dott.ssa Tratzi, cosa succede psicologicamente a una persona quando il proprio dolore cronico viene etichettato come “solo stress” o “ansia”?


Quando un dolore cronico viene etichettata come “solo stress” o “solo ansia”, psicologicamente può diventare un macigno ancora più pesante da portare. 

Chi vive una patologia cronica si confronta ogni giorno con sintomi reali, spesso invalidanti, che condizionano il lavoro, le relazioni, la libertà di fare anche le cose più semplici. Sentirsi dire che è “solo stress” significa vedersi sminuire la propria esperienza. Questo genera frustrazione, rabbia, senso di solitudine. E può far nascere persino dubbi: “Allora sto esagerando? È colpa mia? Mi sto inventando tutto?”

Il risultato? Aumentano l’ansia, lo stress e a volte pure il dolore stesso.

Perché corpo e mente parlano, sempre. Ma non vuol dire che la malattia cronica sia solo psicologica. Vuol dire che ha bisogno di essere accolta nella sua interezza: medica, emotiva, corporea.


Quando accompagno una persona con una malattia cronica, lavoro proprio su questo: aiutare a dare dignità alla sofferenza, a trovare un senso e strategie nuove per conviverci. Non per “farsela passare con la testa”, ma per viverci dentro con più risorse, meno colpa e più ascolto di sé.


Perché le malattie invisibili – come la fibromialgia, cfs/me o l’endometriosi – faticano ancora oggi ad essere riconosciute e validate?


Perché non si vedono. Le malattie invisibili — come fibromialgia, cfs/me o endometriosi — non lasciano segni evidenti agli occhi degli altri. 


E nella nostra cultura, ciò che non si vede spesso non si riconosce. Si tende a pensare che chi soffre esageri, sia ipersensibile o addirittura stia cercando scuse.

Questo porta a una doppia sofferenza: oltre ai sintomi cronici, la persona deve continuamente giustificarsi e spiegare che non sta bene davvero.


C’è anche un altro motivo: la medicina tradizionale, per come è impostata, fa ancora fatica a considerare la connessione stretta tra corpo, emozioni e mente. Così, quando non si trova una causa “meccanica”, si tende a minimizzare o a ridurre tutto allo stress.

Ma queste malattie ci insegnano proprio questo: che il corpo è un sistema complesso e che anche ciò che non si vede ha bisogno di cura, rispetto e ascolto.


Qual è l’impatto emotivo di sentirsi dire, magari anche da un medico, “è tutto nella tua testa”


Un impatto enorme! Sentirsi dire “è tutto nella tua testa”, soprattutto da un medico, lascia un segno profondo. Perché significa sentirsi non creduti, non visti, quasi traditi proprio da chi dovrebbe aiutarti.

Emotivamente può scatenare un mix di rabbia, vergogna e solitudine. Rabbia perché il dolore è reale, e sentirlo sminuire fa male due volte. Vergogna perché si inizia a pensare: “E allora sono io il problema?”. Solitudine perché ci si sente abbandonati, senza più un punto di riferimento a cui affidarsi.


Spesso questo porta a dubitare persino delle proprie sensazioni corporee, a chiedersi se si sta esagerando, a sentirsi inadeguati. Un terreno fertile per aumentare ansia, stress e perfino il dolore stesso.


Ecco perché nella mia pratica pongo sempre così tanta attenzione ad accogliere la persona nella sua interezza — corpo, emozioni, mente — e a dare dignità a ciò che prova. Perché non è mai “tutto nella testa”: è nella persona, nella sua storia, e merita rispetto e cura.


In che modo la mancata validazione può peggiorare non solo il benessere psicologico, ma anche il decorso della malattia?


La mancata validazione non è solo una ferita emotiva: può diventare un fattore che peggiora anche il decorso della malattia.

Quando il dolore o i sintomi cronici non vengono riconosciuti, la persona si sente sola, incompresa, spesso in colpa o sbagliata. Questo alimenta stress, tensione continua, e a lungo andare può aumentare stati di ansia o depressione.


Ma non finisce qui. Lo stress cronico, l’iperattivazione emotiva e la mancanza di supporto hanno un impatto reale sul corpo: aumentano l’infiammazione, abbassano le difese immunitarie, amplificano la percezione del dolore. È come se il corpo restasse costantemente in allerta, senza la possibilità di recuperare davvero.

Per questo validare la sofferenza — darle un nome, riconoscerla, accoglierla — non è solo un gesto di gentilezza. È il primo passo concreto per prendersi cura di sé in modo nuovo, più profondo, più rispettoso.

E questo, spesso, fa la differenza.


Esistono segnali interiori che indicano che una persona ha interiorizzato l’invalidazione ricevuta? Come riconoscerli?


Sì, ci sono segnali interiori molto chiari che spesso indicano che una persona ha interiorizzato l’invalidazione che ha ricevuto.


Sono quei pensieri o atteggiamenti che suonano più o meno così:

  • “Forse sto esagerando…”

  • “Non dovrei lamentarmi così tanto, ci sono persone messe peggio.”

  • “Se non lo vede nessuno, allora forse è colpa mia.”


Oppure si traducono in comportamenti: minimizzare sempre il proprio malessere, evitare di parlarne, sentirsi in imbarazzo o addirittura in colpa per chiedere aiuto.

Sono tutti segnali che mostrano come il messaggio esterno — “non sei davvero malata”, “è solo nella tua testa”, “non è poi così grave” — è diventato un messaggio interno. E questo è pericoloso, perché porta a trascurarsi, a non cercare le cure giuste, a sopportare oltre misura.


Imparare a riconoscerli è già un atto di cura di sé: significa iniziare a mettere in discussione quello sguardo svalutante, e dare finalmente spazio al proprio sentire.


Che differenza c’è tra una reale comorbidità ansiosa e una diagnosi frettolosa che riduce tutto alla “mente”?


La differenza tra una reale comorbidità ansiosa e una diagnosi frettolosa che riduce tutto “alla mente” non è solo una questione di etichette, ma di rispetto e cura autentica.


La comorbidità ansiosa è quando l’ansia si intreccia profondamente con la malattia cronica, amplificando la sofferenza e richiedendo un intervento mirato e specifico. Riconoscere questo significa prendersi cura della persona nella sua complessità.


Al contrario, una diagnosi frettolosa che mette tutto “nella testa” rischia di banalizzare il dolore reale, trasformandolo in un problema psicologico da cui si può “uscire” solo con la forza di volontà. Questo lascia la persona frustrata, non ascoltata e spesso con un senso di colpa: “se sto male, è colpa mia”.


Molti pazienti raccontano di sentirsi traditi proprio da questa riduzione, che non solo sminuisce la loro sofferenza, ma li isola ancora di più.

Per me, fare la differenza significa smettere di dividere corpo e mente, e accogliere la persona nella sua interezza. Solo così si costruisce un percorso di cura vero, efficace e rispettoso.


Come può una persona imparare a validare se stessa quando il mondo esterno non lo fa?


Imparare a validare se stessi quando il mondo esterno non lo fa è una sfida, ma è possibile — ed è un atto di amore verso di sé che può cambiare molto.


Il primo passo è imparare a riconoscere e ascoltare i propri segnali, anche quelli più piccoli: quel malessere che a volte tendiamo a ignorare o a giustificare. Significa dare spazio alle proprie emozioni, senza giudicarle o reprimerle.

Poi serve allenare uno sguardo gentile verso di sé, imparando a dire mentalmente cose come: “Va bene sentirmi così”, “La mia sofferenza è reale”, anche quando gli altri non lo riconoscono.


A volte può aiutare scrivere, parlare con qualcuno di fiducia o rivolgersi a un professionista che sappia accogliere senza giudizio.

Validarsi significa anche imparare a prendersi cura di sé in modo concreto: ascoltare il corpo, rispettare i propri limiti, dedicare tempo a ciò che fa bene, fisicamente ed emotivamente.

Non è un percorso facile, ma è il modo migliore per uscire dalla solitudine e iniziare a costruire una relazione di fiducia con se stessi.


Qual è il ruolo della psicoterapia nel processo di riappropriazione del proprio vissuto corporeo e nella ricostruzione della fiducia in sé?


La psicoterapia ha un ruolo fondamentale quando si tratta di riappropriarsi del proprio vissuto corporeo e ricostruire la fiducia in sé.

Spesso, chi convive con un dolore cronico o una malattia invisibile si sente distaccato dal proprio corpo, come se fosse un nemico o un luogo di tradimento. Questo genera paura, sfiducia e isolamento.


La psicoterapia, specialmente quella funzionale e corporea, aiuta a ristabilire quel dialogo interrotto tra mente e corpo, permettendo alla persona di ascoltarsi senza giudizio e di riconnettersi con le proprie sensazioni reali.


È un percorso che va oltre la semplice gestione del sintomo: è una vera e propria ricostruzione di sé, in cui si recupera la capacità di fidarsi di sé stessi, delle proprie emozioni e del proprio corpo.

Questo processo non cancella la malattia, ma cambia il modo in cui la persona la vive, riducendo sofferenza e senso di impotenza, e aprendo la strada a una vita più piena e autentica.


Cosa possono fare familiari, amici e medici per offrire un supporto realmente empatico e non invalidante?


Familiari, amici e medici possono fare moltissimo, semplicemente iniziando dal rispetto e dall’ascolto autentico.

Spesso, chi vive con una malattia cronica o un dolore invisibile si sente invisibile anche nel proprio ambiente, non solo per la malattia in sé, ma per come viene percepito.

Un supporto empatico nasce dall’accogliere la sofferenza senza giudizio, senza cercare di minimizzare o dare soluzioni immediate. Significa dire: “Ti credo, vedo che stai male”, anche quando non si capisce completamente cosa sta succedendo.

È importante evitare frasi come “È solo nella tua testa” o “Dai, forza, non pensarci troppo”, che invalidano e aumentano la solitudine.


Familiari e amici possono invece offrire presenza concreta, pazienza e attenzione ai bisogni reali della persona, anche quelli non detti.

I medici, dal canto loro, dovrebbero integrare un approccio umano e multidisciplinare, riconoscendo la complessità delle malattie invisibili e lavorando in squadra con psicologi e altri professionisti.

In sintesi, si tratta di creare uno spazio sicuro dove la persona possa sentirsi capita, rispettata e accompagnata — e questo fa davvero la differenza.


Se potesse dire una frase a chi vive ogni giorno un dolore invisibile, non creduto e solitario, quale sarebbe?


A chi vive ogni giorno un dolore invisibile, non creduto e solitario, vorrei dire:


"La tua sofferenza è reale, anche quando nessuno la vede. Non sei sola, anche se a volte può sembrare così. Prenditi il tempo di ascoltarti, di rispettarti, e ricorda che la tua esperienza ha valore, merita attenzione e cura.

Non devi affrontare tutto da sola: cercare aiuto non è una debolezza, ma un atto di coraggio e amore verso te stessa.”


E se vuoi, io sono qui per accompagnarti in questo percorso.

 
 
 

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