Dove la cura incontra la narrazione: la visione del Dott. Leonardo Gaglio
- Amici Invisibili
- 7 giorni fa
- Tempo di lettura: 5 min

Dott. Gaglio, lei unisce due mondi apparentemente distanti: la medicina e la scrittura. È nato prima il medico o lo scrittore?
Credo sia nata prima la scrittura. Da quando ho memoria, ricordo di aver avuto sempre l’esigenza di raccontare, scrivere. Successivamente ho incontrato, nel mio percorso di vita, la medicina. Sebbene inizialmente pensassi di essermene allontanato, più passava il tempo, più mi rendevo conto che le due strade si incontravano. Quando ho completato gli studi in medicina tradizionale cinese e agopuntura, mi sono reso conto che, superando lo scisma tra mente e corpo operato dal mondo occidentale, scrittura e medicina potevano essere due armi complementari per la guarigione del paziente.
Qual è la situazione attuale dei luoghi di cura e quale potrebbe essere il ruolo dell’arte al loro interno?
Viviamo in un mondo che va veloce, dove i tempi per visite e terapie, dettati dai vertici, diventano sempre più ridotti. Questo spesso trasforma i luoghi di cura in una fabbrica con un nastro trasportatore, un po’ come quella che Chaplin mostra nel suo capolavoro Tempi moderni. La mia lotta è cercare di rendere il luogo di cura uno spazio in cui ci si prende realmente carico del paziente, del suo corpo e del suo bagaglio psico-sociale. L’arte, in questo contesto, cerca di rendere il paziente più ricettivo, più aperto al dialogo.
Può raccontarci la sua esperienza dell’utilizzo dell’arte in ambiente clinico?
Da diverso tempo collaboro con l’Istituto Fisicoterapico di Torino, il quale, insieme a Sutura, ha lanciato nei mesi scorsi un esperimento. Nelle sale d’attesa, ai pazienti viene letto un testo ispirato all’opera d’arte Habitat 00 project #02 del noto artista Eugenio Tibaldi. Gli stessi pazienti sono poi invitati a sviluppare, secondo le tecniche di visual thinking, un disegno su un cartoncino blu con una matita bianca. Dall’altra parte, i medici possono valutare gli effetti dell’esperimento sui pazienti, confrontandoli con coloro che non hanno partecipato. I risultati sono stati sorprendenti: disegnare prima della visita medica ha reso le persone più collaborative, più partecipi al processo di cura e più aperte al dialogo medico.
Come reagiscono i colleghi del mondo medico quando si parla di introdurre arte nei percorsi di cura? C’è apertura o ancora diffidenza?
Purtroppo, in questo momento in Italia, sebbene vi siano realtà che hanno ben chiara l’importanza di introdurre l’arte nei centri di cura, nella maggior parte dei casi non se ne fa uso perché le lunghe liste d’attesa e la necessità di cure rapide sono considerate priorità assolute. Così, le risorse vengono dirottate altrove. La formazione universitaria, inoltre, non prevede un percorso di studi sul tema, e questo rende i colleghi spesso scettici e diffidenti. C’è ancora molto lavoro da fare.
In che modo l’arte, la scrittura, può diventare una forma di cura? La utilizza anche con i suoi pazienti?
Spesso i pazienti che arrivano nel mio ambulatorio sono spaventati, nessuno crede al loro dolore. Così, la prima cosa che cerco di far capire è che io credo al loro dolore e voglio sapere tutto di esso. Voglio vederlo, sentirlo. È un esercizio che mi consente di fare una diagnosi più accurata, ma soprattutto permette al paziente di comprendere che io prenderò in carico la sua storia, la sua sofferenza, perché voglio la sua guarigione. Quando non riesce a descrivermi il dolore, chiedo al paziente di disegnarlo, o di scrivere un diario, annotandone i particolari. Questo permette di visualizzare il nemico da combattere insieme. Anche se qualche paziente può ritenere il mio metodo un po’ buffo, alla fine i risultati sono nettamente migliori.
Quanto è importante la dimensione narrativa nella diagnosi e nella relazione con il paziente?
È estremamente importante! Secondo uno studio di Kessels del 2003, il 40-80% delle informazioni mediche fornite dai medici viene subito dimenticato dai pazienti. In pratica, il paziente esce dallo studio e non ricorda nulla di ciò che abbiamo detto. Ecco perché la dimensione narrativa è fondamentale e deve essere sempre tenuta viva. Questo è solo la punta dell’iceberg. Gli effetti benefici della medicina narrativa sono ormai ben noti, già a partire dai lavori della dottoressa Rita Charon.
Nel marzo 2020 parte alla volta di Bergamo per lavorare nell’epicentro della pandemia, presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII, nel reparto di malattie infettive. Tocca con mano la sofferenza, la morte in corsia, il dolore. Da quell’esperienza nasce un libro che si prefigge lo scopo di curare. Ci racconti qualcosa in più?
Quella a cui ha accennato è una delle pagine più forti emotivamente della mia vita. Credo che mi abbia cambiato dentro per sempre, e quelle ferite le porto ancora oggi nella vita di ogni giorno. Gli occhi di quella gente che mi stringeva le mani con forza, che non voleva morire, che cercava una cura da me – e io, impotente, potevo solo assisterli – non si possono raccontare davvero. Per esorcizzare quel dolore, io per primo ho scritto. Ho cercato nella scrittura un modo per scrollarmi di dosso quella sofferenza, e al contempo ho cercato di dire agli altri come fare. Quello è stato il mio primo esperimento di arte come guarigione. Così è nato Quarante: 14 storie ai tempi del Coronavirus, tradotto anche in portoghese dall’Universidade do Contestado per il mercato brasiliano.
Cosa ha imparato dalla sofferenza dei pazienti?
Ho imparato che bisogna essere gentili con il mondo che ci circonda, sempre. Non sappiamo mai chi abbiamo di fronte, cosa sta sopportando, cosa sta vivendo. Per questo motivo non possiamo permetterci di essere sgarbati o offensivi. Il dolore e la sofferenza devono avere il massimo rispetto. Soprattutto, bisogna sempre credere al paziente, anche se mente. Quel dolore che forse non ha un’origine tissutale, non si vede all’ecografia... se il paziente lo prova, esiste.
Sta lavorando a nuovi progetti editoriali o a iniziative che coniughino salute e cultura?
Nel 2026 probabilmente uscirà il mio nuovo libro, il cui protagonista è proprio un medico. Ma non vi svelo altro, bisognerà attendere. In futuro spero ancora di collaborare con l’Istituto Fisicoterapico di Torino e Sutura per nuovi progetti che vedano l’arte come strumento di guarigione, in tutte le sue forme.
Se potesse ridisegnare un reparto ospedaliero, che spazio riserverebbe all’arte? Come lo immaginerebbe?
Creerei le stanze dell’arte libera, con tele per i pazienti che vogliono dipingere e sfogare il proprio dolore, strumenti musicali che possano essere suonati, libri che possano essere letti. Naturalmente, con la presenza di professionisti che guidino i pazienti nelle loro attività.
Infine, cosa direbbe ai medici di domani riguardo al potere dell’arte nella cura?
Direi che, forse, domani l’intelligenza artificiale potrà individuare patologie che io non vedo con i miei occhi, sarà molto più accurata. Ma i medici potranno distinguersi e avere successo solo se sapranno essere umani e accogliere la sofferenza dei pazienti in ogni modo, cercando un approccio olistico, diagnostico e terapeutico, in cui l’arte deve trovare spazio.
Comments