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Dott. Danilo Buonsenso: la ricerca sul Long Covid pediatrico

  • Immagine del redattore: Amici Invisibili
    Amici Invisibili
  • 18 ott
  • Tempo di lettura: 5 min

di Giulia Catricalà


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Dopo la fase acuta della pandemia, l’attenzione pubblica, mediatica e scientifica si è concentrata sul ritorno alla normalità, trascurando spesso le conseguenze a lungo termine dell’infezione da SARS-CoV-2, soprattutto nei pazienti più giovani. Ma cosa accade quando i sintomi non migliorano? Quando la stanchezza, la confusione mentale e il malessere si cronicizzano anche nei bambini?

Ne abbiamo parlato con il Prof. Danilo Buonsenso, medico, ricercatore e autore del libro "Long Covid - Il Mio Diario di viaggio senza Filtri". Responsabile dell’Unità Operativa di Malattie Infettive Pediatriche al Policlinico Gemelli di Roma e docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Prof. Buonsenso è tra i primi in Italia ad aver posto l’attenzione su un tema nevralgico ma sottostimato: il Long Covid pediatrico. 

 

I bambini spesso non hanno un linguaggio ancora adeguato per descrivere sintomi come la stanchezza cronica, la nebbia mentale o il malessere generale. Come può un medico pediatra riconoscere questi segnali in modo precoce?

Nel caso dei bambini, il linguaggio emotivo e corporeo può essere un po' diverso rispetto agli adulti. I bambini spesso non hanno gli strumenti per esprimere sintomi complessi come la nebbia mentale o la stanchezza cronica, quindi questi segnali possono essere interpretati come “comportamenti strani” o “capricci”. Tuttavia, ci sono alcuni segnali precoci che un pediatra dovrebbe osservare: cambiamenti nei livelli di energia, difficoltà a concentrarsi o a mantenere l’attenzione, irritabilità o apatia, e una rinnovata difficoltà a tornare alla routine quotidiana dopo una malattia. Se un bambino continua a mostrare segni di stanchezza e difficoltà cognitive, è essenziale considerare il Long Covid tra le possibili cause, soprattutto se il bambino ha avuto un’infezione recente da SARS-CoV-2, o comunque una malattia febbrile.

 

Nella sua esperienza, quali sono i sintomi più sottovalutati o fraintesi nei bambini post-COVID? E come li esprimono, concretamente?

I sintomi più sottovalutati nei bambini post-COVID spesso riguardano la stanchezza persistente e i disturbi cognitivi. A volte vengono interpretati erroneamente come mancanza di motivazione o pigrizia. Un altro sintomo comune è la difficoltà a riprendere attività fisiche o sociali, che può sembrare una semplice "paura" o "ansia", ma in realtà può essere un segno di un disordine post-virale. I bambini esprimono spesso la fatica fisica come dolori muscolari generali o una resistenza a fare attività fisica, mentre la “nebbia mentale” può manifestarsi in difficoltà scolastiche o confusioni durante il gioco. È importante che i medici non sottovalutino questi segnali e approfondiscano il quadro clinico, senza focalizzarsi solo sulla sfera psicologica/psichiatrica, e quindi non mandarli solo dallo psicologo/psichiatra.

 

Dopo l’emergenza acuta della pandemia, l’attenzione si è rapidamente spostata sul “ritorno alla normalità”. Secondo lei, perché oggi è così difficile parlare degli effetti a lungo termine del COVID?

Dopo la fase acuta della pandemia, c'è stata una necessità collettiva di "riappropriarsi della normalità" per superare il trauma e l'incertezza. Questo impulso ha reso difficile affrontare gli effetti a lungo termine del COVID, perché spesso vengono visti come una minaccia alla percezione di normalità che stiamo cercando di ricostruire. C'è anche una certa resistenza sociale e medica, in parte perché la scienza sul Long Covid è ancora in fase di sviluppo. I sintomi sono spesso variabili e difficili da diagnosticare, e questo li rende meno “concreti” e quindi più facili da ignorare o minimizzare. Inoltre, c'è una forte componente psicologica, in cui le persone non vogliono ammettere che l'impatto del COVID potrebbe durare nel tempo. Sicuramente, c’è anche una complessa componente politica.

 

Molti pazienti si sentono dire che i loro sintomi persistenti sono legati a stress o ansia. Cosa comporta questa minimizzazione dal punto di vista medico e sociale?

Questa minimizzazione può avere effetti devastanti sia sul piano medico che sociale. Medico, perché ritardare una diagnosi accurata e una gestione appropriata dei sintomi può peggiorare la condizione e far sentire i pazienti invalidati. Socialmente, c'è un rischio che il paziente venga stigmatizzato come "ipocondriaco" o "sensibile", quando in realtà sta vivendo una condizione medica reale e complessa. Questo non solo peggiora la qualità della vita, ma porta anche a una frustrazione crescente e a una sfiducia nei confronti del sistema sanitario. La comunicazione è fondamentale: il medico deve essere empatico, ascoltare e non ridurre i sintomi a un semplice “stress” senza un’adeguata valutazione. Tutto ciò, inoltre, limita anche le possibilità di finanziamento della ricerca, nonché il riconoscimento della patologia da parte del Sistema sanitario nazionale, obbligando i pazienti a rivolgersi solo al sistema privato.

 

Esiste un legame dimostrato tra l’infezione da SARS-CoV-2 e un aumento delle diagnosi di malattie autoimmuni? Cosa dice la letteratura più aggiornata?

Sì, la letteratura scientifica emergente suggerisce che l'infezione da SARS-CoV-2 può aumentare il rischio di sviluppare malattie autoimmuni, sebbene la connessione non sia ancora completamente chiara. Alcuni studi indicano che il virus potrebbe innescare una risposta immunitaria che porta ad attacchi errati al corpo, causando condizioni come lupus, artrite reumatoide e tiroiditi. Il meccanismo alla base di questo fenomeno è ancora oggetto di ricerca, ma alcuni scienziati ritengono che il COVID possa “risvegliare” una predisposizione genetica in alcune persone, o alterare l'equilibrio del sistema immunitario. Saranno necessari più studi per confermare e comprendere meglio questi legami, ma la direzione è quella, e comunque non è esclusiva solo del SARS-CoV-2, essendo tale legame già dimostrato per altri virus, come EBV e sclerosi multipla.

 

Si è parlato anche di un incremento nelle diagnosi di tumori post-pandemia. Ci sono dati che supportano un possibile collegamento? Come si interpreta questa tendenza?

Anche se alcune teorie suggeriscono un possibile legame tra il COVID-19 e un incremento dei tumori, i dati in tal senso sono ancora scarsi e non definitivi. Alcuni ricercatori ipotizzano che il virus possa alterare il sistema immunitario in modi che influenzano lo sviluppo di cellule tumorali, ma è importante sottolineare che le diagnosi di tumore post-pandemia potrebbero essere in parte dovute alla ripresa delle diagnosi dopo l’interruzione dei trattamenti e degli screening durante la pandemia. In molti casi, i pazienti potrebbero aver trascurato sintomi o esami preventivi a causa della pandemia, portando a diagnosi più tardive. È un campo che necessita di un’attenzione costante e di ulteriori ricerche, ma per ora non considererei questa osservazione come sostenuta da solide evidenze.

 

Può parlarci del suo libro: Long Covid - il Mio Diario di viaggio senza Filtri: gli inizi, le idee, i retroscena, la ricerca, i pazienti, il futuro.

Il mio libro "Long Covid - il Mio Diario di viaggio senza Filtri" è un racconto personale e allo stesso tempo una riflessione collettiva su quanto possa essere complessa l'esperienza del Long Covid. Ho voluto raccontare la mia esperienza, ma anche quella di molti altri pazienti, in modo diretto, senza fronzoli, perché il Long Covid è un viaggio che non può essere addolcito per renderlo più digeribile. Ho parlato delle difficoltà iniziali nel riconoscere la condizione, della frustrazione di non trovare risposte immediate, e della fatica nel cercare di capire cosa fosse accaduto al corpo e alla mente dei miei pazienti. Nel libro ci sono anche riflessioni sulla ricerca scientifica, sulla medicina e sulla necessità di un approccio multidisciplinare, e di come il long covid stia aprendo una rivoluzione nel modo di vedere molte patologie ad oggi ancora considerate “sine causa”. Credo che il futuro passi attraverso una maggiore consapevolezza, una migliore gestione e una collaborazione più stretta tra pazienti, medici e ricercatori.

 

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